Intervista al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I

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Incontrarci, guardare il volto l'uno dell'altro

 

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Salire le strette scale, di sobria eleganza, che collegano i piani del Palazzo del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli ritma la chiara percezione che questo luogo, in sé piccolo, sia il cuore spirituale di milioni di cristiani ortodossi in tutto il mondo.

Attraversando le onde dei secoli, esso ha affrontato le tempeste e le bonacce della storia, trascendendola nella sua missione di servizio che dura da 1.700 anni. Il suo ruolo, veramente globale, si dispiega dal quartiere di Istanbul, dove sorge il «Fener» (o «Fanar», come si dice in lingua greca), un quartiere storico che si affaccia direttamente sul Corno d’Oro, un estuario invaso dal mare situato nella Turchia europea, che divide la città di Istanbul in due: l’antica Bisanzio-Costantinopoli a sud, e la colonia genovese di Pera- Galata a nord.

Il nome «Fanar» risale all’epoca bizantina e deriva dalla parola greca «lanterna», utile per aiutare la navigazione. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), il quartiere ospitò molti dei greci reinsediatisi in città e anche il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli. La chiesa di San Giorgio, precedentemente parte di un monastero, nell’anno 1600 venne elevata a chiesa cattedrale dal Patriarca di Costantinopoli Matteo II, il quale trasferì qui la sede del Patriarcato, il luogo sacro «dove è la Cattedra dei vescovi di questa storica Chiesa martire, incaricata dalla Divina Provvidenza del ministero di alta responsabilità di Primo Trono delle Santissime Chiese Ortodosse Locali», come l’ha definita il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I.

Il Patriarca e il Papa

A fine novembre 2014 Papa Francesco si è recato in Turchia, ed è stato accolto «con amore e grande onore, ma anche con profonda riconoscenza» dalla Chiesa della Città di Costantino e dall’abbraccio del Patriarca Bartolomeo. Dopo un giorno trascorso ad Ankara, infatti, si è trasferito nella città del Bosforo, entrando nel Fanar due volte: sabato 29 per una preghiera ecumenica nella chiesa patriarcale di San Giorgio e poi per un incontro privato nel Palazzo Patriarcale; e domenica 30 per la Divina Liturgia nella stessa chiesa e quindi la Benedizione ecumenica e la firma di una dichiarazione congiunta.

Lo scisma tra Roma e Costantinopoli è avvenuto nel 1054, ed è stato consumato nel 1204, a causa della IV Crociata, con quello che san Giovanni Paolo II aveva definito il «saccheggio disastroso della città imperiale di Costantinopoli» da parte di coloro che «avevano stabilito di garantire ai cristiani libero accesso alla Terra Santa» e che «si sono poi rivoltati contro i propri fratelli nella fede». Ma sono state proprio queste, le Chiese di Roma e di Costantinopoli, a riprendere il dialogo della carità, con lo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora nel 1964, i quali sollevarono anche le reciproche scomuniche tra le due Chiese. Quel gesto è stato confermato e prolungato negli incontri tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo prima in Terra Santa, poi in Vaticano, e quindi presso il Fanar.

Questi incontri sono stato vissuti come il segno profetico di una unità tanto attesa e desiderata, che già nell’oggi dispiega la sua bellezza in una amicizia sincera. Per questo motivo il Patriarca ha espresso la sua «ineffabile gioia» provocata dall’«appropriato onore della presenza di persona di Vostra Santità».

Bartolomeo ha salutato il Papa dando una lettura dei suoi mesi di pontificato: «Il Vostro ancora breve cammino alla guida della Vostra Chiesa, Vi ha consacrato, nella coscienza dei nostri contemporanei, araldo dell’amore, della pace e della riconciliazione. Insegnate con i Vostri discorsi, ma soprattutto e principalmente con la semplicità, l’umiltà e l’amore verso tutti, per i quali esercitate il Vostro alto ufficio. Ispirate fiducia agli increduli, speranza ai disperati, attesa a quanti attendono una Chiesa amorevole verso tutti».

Molti sono rimasti colpiti in particolare dall’abbraccio tra il Papa e il Patriarca, e dall’inchino di Francesco dinanzi a Bartolomeo con la richiesta di benedirlo e di pregare per la Chiesa di Roma. Il Patriarca lo ha baciato con delicatezza sullo zucchetto bianco.

Questi gesti e i sentimenti di fede e di comunione che li hanno mossi hanno fatto nascere il desiderio profondo di un dialogo con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I.

«Sono grato ai gesuiti — mi dice —: sono stato vostro allievo al Pontificio Istituto Orientale». Infatti, nella sua lunga e ampia formazione teologica, sono da considerare centrali quegli anni nei quali, a partire dal 1963, egli ha studiato in questo Istituto Diritto canonico orientale, conseguendo il dottorato nel 1968. Le sue parole mi richiamano il fatto che il Pontificio Istituto Orientale è a due passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, dove l’allora studente Dimitrios Archondonis — questo è il nome da civile del Patriarca — andava a pregare, così come adesso è solito fare Francesco prima e dopo i suoi viaggi apostolici.

Santità, il nostro mondo sta cambiando rapidamente. Viviamo un momento difficile, ma il credente sa che il Signore è presente e attivo nel mondo. Qual è oggi la sfida più grande per la vita di fede e l’annuncio del Vangelo?

Un semplice sguardo alle notizie provenienti da tutto il mondo, e in particolare ai social media, rivela i cambiamenti rapidi e senza precedenti che stanno avvenendo intorno a noi. Proprio per questo stiamo diventando sempre più fedeli e fiduciosi in quel Dio che solo può rendere i nostri cuori più forti e l’umanità intera più salda. Dio è l’Alfa e l’Omega, colui che è e che era, lo stesso ieri, oggi e per sempre. Nello stesso tempo, però, non c’è mai stato nella storia un momento come questo, in cui le persone possono esercitare una influenza ampia sul proprio ambiente di vita. La nostra epoca non ha rivali riguardo alla consapevolezza del collegamento tra le nostre convinzioni e la nostra condotta, tra ciò che crediamo e ciò che mettiamo in pratica, tra la nostra spiritualità e il nostro stile di vita. Mai come adesso gli esseri umani sono stati in grado di decidere e determinare il futuro della nostra comunità e del pianeta. Possiamo letteralmente scegliere e cambiare il modo in cui viviamo, per rendere note e influenzare le sfide che abbiamo di fronte. Mi riferisco in particolare alle sfide dell’immigrazione e del cambiamento climatico, come pure alla disuguaglianza economica e all’ingiustizia sociale.

E qual è, a suo avviso, il compito più significativo che abbiamo davanti a noi? Quale la grande sfida in questo momento?

Il compito principale che abbiamo davanti è la volontà e la prontezza di fare questi collegamenti tra ciò in cui crediamo, i nostri valori e le nostre convinzioni, e ciò che concretamente facciamo o possiamo fare. È un grande compito, davvero impegnativo. La triste realtà è che siamo riluttanti e facciamo perfino resistenza nel riconoscere le nostre responsabilità riguardo alle difficoltà e alle divisioni che affliggono il mondo. E qui, credo, si trova il cuore del problema: come faremo a riconoscere il rapporto diretto tra noi e il nostro mondo? Come potremo discernere che ciò che facciamo e ciò che abbiamo sono in relazione immediata con il modo in cui il resto del mondo vive e con ciò di cui il resto del mondo è carente? In definitiva, come possiamo vivere in modo da promuovere l’armonia e non la divisione, la gratitudine e non l’avidità?

La fede non può essere estranea a questo grande compito…

Certo. Alla luce di questo dilemma che ho illustrato, il mondo della fede può rivelarsi un potente alleato nel tentativo di affrontare le questioni di giustizia sociale. Può fornire una prospettiva unica — al di là del semplice sguardo sociale, politico o economico — sulla necessità di sradicare la povertà, fornire un equilibrio in un mondo di globalizzazione, combattere il fondamentalismo e il razzismo, e sviluppare la tolleranza religiosa in un mondo in conflitto. È proprio il compito della religione quello di rispondere ai bisogni dei poveri del mondo e alle persone deboli ed emarginate. In quanto tale, la religione è probabilmente la forza più pervasiva e potente della terra. Infatti, non solo la fede gioca un ruolo fondamentale nella vita personale di ognuno di noi, ma svolge anche un ruolo fondamentale come forza di mobilitazione sociale e istituzionale.

C’è qualcosa nella spiritualità ortodossa che la aiuta in maniera speciale a vivere questo sguardo ampio e a comprendere questa potenza sociale della fede?

Dal punto di vista della spiritualità cristiana ortodossa, la luce e la potenza della risurrezione di Cristo costituiscono una fonte di ottimismo e di realismo, in particolare quando tutto ciò che ci è intorno sembra contraddire la speranza che è in noi. Intravediamo questa speranza ogni anno alla vigilia della domenica di Pasqua, quando il vescovo o il sacerdote lascia l’altare, che simboleggia la tomba di Cristo, e trionfalmente canta: «Vieni, ricevi la luce!». Con queste parole, la luce di una sola candela illumina tutta la chiesa, che era in attesa, nel buio. È la convinzione che la luce di Dio sia più luminosa di qualsiasi oscurità nei nostri cuori e nei cuori di tutti coloro che sono in chiesa; anzi, più luminosa di qualsiasi oscurità del mondo.

Durante la preghiera dello scorso 25 maggio davanti al Santo Sepolcro, lei ha detto che cinquant’anni fa Papa Paolo VI e il Patriarca Ecumenico Atenagora hanno gettato via la paura che, per mille anni, aveva tenute distanti, e talvolta anche contrapposte, la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente. Ricordo la sua omelia nella chiesa patriarcale di San Giorgio durante la Divina Liturgia per la festa di sant’Andrea apostolo. Davanti a Papa Francesco lei ha detto che in quell’incontro di cinquant’anni fa «il corso della storia ha cambiato direzione» e che «l’amore raffreddato si è riacceso e si è ritemprata la nostra volontà di fare tutto ciò che possiamo affinché spunti di nuovo la nostra comunione, nella stessa fede e nel Calice comune». Come vede adesso il percorso futuro per le due Chiese sorelle?

Non c’è dubbio che lo storico incontro dei nostri venerati predecessori, il Patriarca Ecumenico Atenagora e Paolo VI, recentemente beatificato dalla Chiesa cattolica romana, abbia segnato un nuovo inizio nei rapporti tra cattolici e ortodossi. Non possiamo ignorare che questo evento si è verificato dopo un intero millennio di sfiducia reciproca e di distacco teologico fra le nostre due grandi tradizioni. Durante questo doloroso periodo di separazione, nonostante la storia comune basata su Scrittura e Tradizione, le nostre due «Chiese sorelle» hanno corso il rischio dell’isolamento e dell’autosufficienza, avendo seguito strade separate fin dall’XI secolo. L’incontro tra il Patriarca Atenagora e Papa Paolo VI a Gerusalemme, il 6 gennaio 1964, è stato uno straordinario punto di partenza per un lungo viaggio di riconciliazione e di dialogo, che le generazioni successive sono state chiamate a continuare e a sviluppare. Guardando indietro agli ultimi cinquant’anni, possiamo essere grati a Dio per ciò che è stato realizzato, sia attraverso il «dialogo della carità», sia, successivamente, attraverso il «dialogo della verità».

Una via magari lunga e talvolta ardua, ma senza ritorno…

Sì, e per fortuna. Oggi lo spirito di amore fraterno e il rispetto reciproco hanno sostituito l’atteggiamento polemico e sospettoso del passato. Dal 1964 potremmo non aver raggiunto la piena comunione, che deve essere sempre l’obiettivo finale dei fedeli discepoli di Cristo, tuttavia abbiamo imparato a perdonarci l’un l’altro per gli errori e le diffidenze del passato e abbiamo compiuto passi significativi verso il riavvicinamento e la riconciliazione.

Questi passi sono stati significativi anche dal punto di vista teologico?

A livello teologico, ovviamente, la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico delle nostre Chiese ha prodotto alcuni importanti documenti comuni. Tuttavia, ci rendiamo conto che c’è ancora molto da fare, sia tra le nostre due Chiese, sia all’interno delle nostre Chiese stesse. Non c’è dubbio che il percorso sarà lungo e difficile. Ma, come seguaci del Signore che prega il Padre ed esorta i suoi discepoli «affinché siano una cosa sola», non abbiamo altra alternativa che proseguire su questa strada di riconciliazione e di unità. Qualsiasi altro modo sarebbe un tradimento disonorevole della volontà del Signore e un ritorno inaccettabile a quel passato di separazione di cui ci rammarichiamo.

Nella sua omelia per la festa di sant’Andrea lei ha detto al Papa che «il nostro dovere non si esaurisce nel passato, ma principalmente si estende, soprattutto ai nostri giorni, al futuro». Mi sembra di percepire in questo momento storico una urgenza, una tensione positiva ancora maggiore che nel passato. Che cosa ne pensa?

Oseremmo dire che proprio oggi, forse ancora di più di cinquant’anni fa, vi è una maggiore e più urgente necessità di riconciliazione. Questo è il motivo per cui gli incontri con il nostro caro fratello Papa Francesco a Roma, Gerusalemme e Istanbul sono stati eventi di grande significato e di profonde conseguenze. Dobbiamo capire con umiltà e ammettere realisticamente che essi sono solo un primo tentativo di raggiungere un contatto, una semplice affermazione del desiderio di aumentare, a livello globale, i nostri sforzi di riconciliazione cristiana e pacifica. Tuttavia, essi dimostrano chiaramente la nostra volontà condivisa e la nostra responsabilità comune di avanzare lungo la via aperta dai nostri predecessori e richiesta da Nostro Signore Gesù Cristo, autore e perfezionatore della fede.

Nel corso dell’intervista che ho fatto a Papa Francesco, nel mese di agosto 2013, il Santo Padre ha detto che ora è il momento giusto per cambiare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale sembrava statica. Questo, ha continuato, «sarà anche un valore ecumenico, in particolare riguardo ai nostri fratelli ortodossi. Da loro si può imparare di più sulla collegialità episcopale e sulla tradizione della collegialità ». Il processo sinodale nella Chiesa cattolica è stato aperto ed è ancora in corso. D’altra parte, ad Amman, lo scorso settembre, c’è stata una riunione della Commissione mista, creata per affrontare gli ostacoli teologici alla piena comunione tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse. Il tema era il rapporto tra primato e sinodalità. Il dialogo su questo punto non sembra muoversi molto. Qual è il suo desiderio per le nostre Chiese? Come interpreta queste parole del Papa? Qual è il valore più importante della sinodalità? Quale dovrebbe essere il rapporto tra il primato, la sinodalità e la collegialità? Nella stessa intervista, Papa Francesco ha detto: «Nelle relazioni ecumeniche è importante non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come dono anche per noi. Voglio continuare la discussione iniziata nel 2007 tra la Commissione congiunta cattolico-ortodossa su come esercitare il primato petrino, che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Dobbiamo continuare su questa strada. Dobbiamo camminare uniti con le nostre differenze: non c’è altro modo per diventare uno. Questa è la via di Gesù». Dal punto di vista ortodosso, come si fa a leggere queste parole? Qual è la via di Gesù? Al Santo Sepolcro abbiamo visto lei e il Santo Padre tenervi per mano, scendendo e salendo le scale. Un’immagine, questa, dal valore simbolico molto forte e profondo. Come percepisce la figura di Papa Francesco? Può dirmi qualcosa su di lui e sul suo rapporto con lui?

Le questioni teologiche del primato e della collegialità nella Chiesa occupano naturalmente una posizione centrale e nello stesso tempo critica per quel che riguarda le relazioni tra le nostre due «Chiese sorelle». Questo è da tempo un dibattito spinoso che attraversa i secoli; ed è attualmente all’ordine del giorno del dialogo teologico ufficiale. La sua è una domanda densa, con molti elementi non semplici da districare, e che non prevede una risposta facile da articolare: è collegata a tanti pregiudizi e polemiche da entrambi i lati. Ogni volta che tra gli ortodossi si discute sul primato, si pensa subito a quello dell’autorità pontificia, soprattutto alla luce degli abusi in epoca medievale; e ogni volta che tra i cattolici romani si discute della collegialità, si teme immediatamente che l’autorità del Papa sia messa in questione o addirittura che si sorvoli riguardo a essa. Quindi ci vorrà del tempo per discernere le vere preoccupazioni e le intenzioni di ognuno. Tuttavia, nel frattempo, il modo di comportarsi dei leader religiosi avrà un impatto significativo su come viene percepita l’autorità nella Chiesa. Ad esempio, è importante il modo in cui la leadership ortodossa viene vissuta, se essa è davvero un autentico modello per la collegialità e non invece un’occasione o un alibi per una rivalità nazionale o istituzionale. Un’autentica visione della leadership inevitabilmente determinerà la natura veritiera e credibile della nostra visione critica del ministero petrino. Nello stesso tempo, il modo in cui il ministero papale sarà esercitato in umiltà e compassione, anziché come una sorta di imposizione sul resto del collegio episcopale, immancabilmente si definirà come un vero riflesso dell’amore crocifisso del Signore, piuttosto che in termini di potere terreno. La sinodalità ha bisogno di un «primo», del protos: non si intende senza di esso, che è colui che ha il carisma della diakonia al servizio della comunione. Il protos è colui che è alla ricerca del consensus di tutti. E proprio questo è il punto in cui veramente sentiamo che il nostro fratello Francesco ha rivelato una leadership straordinaria. Sin dall’inizio dell’elezione di Papa Francesco abbiamo sentito che c’era qualcosa di speciale in lui: la sua integrità, la sua spontaneità, il suo calore. Questo è il motivo per cui ho deciso di partecipare al suo insediamento o Messa inaugurale nel marzo del 2013; questa è stata la prima volta in assoluto che un Arcivescovo di Costantinopoli è stato presente in tale occasione presso la Chiesa di Roma.

Abbiamo già accennato al nostro impegno per l’unità teologica e sacramentale con la Chiesa cattolica romana. Questo inevitabilmente richiederà molto tempo e intenso lavoro. Tuttavia, c’è molto che possiamo fare insieme a Papa Francesco, al fine di rispondere ai bisogni cruciali del nostro mondo: la sofferenza e la fame che affliggono sempre più le nostre società; il divario ingiustificabile e perverso che sta crescendo tra ricchi e poveri, nonché la crisi urgente causata dal cambiamento climatico, che mette in discussione gli atteggiamenti fondamentali che abbiamo nei confronti delle risorse naturali del mondo. La sofferenza oggi di persone, in ogni angolo del nostro pianeta; l’abuso della religione per scopi politici e secolari; le difficoltà dei cristiani in tutto il mondo, e in particolare nelle zone in cui la Chiesa cristiana è nata e cresciuta, a prescindere dalle identità confessionali; le ingiustizie inflitte ai membri deboli della società contemporanea; e la crisi ecologica allarmante che minaccia l’integrità e la sopravvivenza stessa della creazione di Dio, tutto questo richiama a un’azione comune, e la soluzione dei problemi ancora ci divide. Proprio per questo oggi, ancor più di cinquant’anni fa, vi è un urgente bisogno di riconciliazione, che ha reso gli incontri con il nostro fratello Papa Francesco a Gerusalemme e a Roma eventi di grande importanza e di più ampio impatto.

Quale contributo la Chiesa ortodossa può dare al mondo di oggi?

La Chiesa ortodossa è in grado di dare molto, in termini di testimonianza, al mondo moderno. Naturalmente tanti problemi si intrecciano nel nostro mondo: sociali, economici e ideologici. La Chiesa ortodossa può offrire la forza della fede originaria, così come esisteva nei primi dieci secoli del nostro percorso storico comune con l’Occidente. Pertanto, ciò che la Chiesa è chiamata a offrire è la semplicità e l’autenticità della fede cristiana. Insegniamo un’autentica spiritualità e una moralità ascetica. L’Occidente è stato tagliato fuori da tali valori, e questo fatto è precisamente ciò che giustifica la nostalgia che oggi si manifesta. In definitiva, è indispensabile cambiare la mentalità attuale e abbandonare uno stile di vita di consumo eccessivo e di avidità sfrenata, che inevitabilmente conduce all’ingiustizia sociale e alla disuguaglianza. L’apostolo Paolo insegna che l’avidità ci porta al culto dei beni materiali, che è idolatria, il peccato più grande. La Chiesa non insegna l’avidità, ma la frugalità, vale a dire, conduce a una vita più semplice. Questo è il messaggio essenziale della Chiesa ortodossa al mondo contemporaneo.

Nel 2016 ci sarà un «Grande e Santo Sinodo» della Chiesa ortodossa. Quali sono i vostri desideri più profondi riguardo a questo incontro? Verrà affrontata la questione dell’ecumenismo?

Nel corso della nostra ultima Assemblea, la Synaxis, dei capi delle Chiese ortodosse di tutto il mondo, che si è tenuta su nostro invito a Istanbul dal 6 al 9 marzo 2014, i Primati delle Chiese ortodosse hanno deliberato sulla questione del Grande e Santo Sinodo della Chiesa ortodossa e hanno deciso all’unanimità che, per accelerare il processo di preparazione, questo Sinodo sarà convocato a Istanbul nel 2016. Tale Sinodo, come lei giustamente osserva, sarà un segno vitale di unità tra le nostre Chiese ortodosse, in un momento in cui il mondo richiede una risposta unitaria alle sue difficili sfide. In questa Synaxis, abbiamo informato i Fratelli Primati del nostro incontro con Papa Francesco a Gerusalemme. In questo modo essi hanno espresso il loro sostegno all’evento e hanno ribadito il loro impegno al dialogo teologico con la Chiesa cattolica romana. Questo è importante, perché il nostro incontro a Gerusalemme è stato molto di più di una forte conferma simbolica della volontà di continuare il cammino dell’amore, inaugurato cinquant’anni fa dai nostri predecessori, in spirito di fedeltà alla verità del Vangelo. È stato anche un’importante occasione per mostrare al mondo un approccio unitario — al di là delle identità confessionali e delle differenze — riguardo alle sofferenze dei cristiani in tanti luoghi, e in particolare nelle aree dove il cristianesimo è apparso inizialmente e poi si è sviluppato. Inoltre, ha fornito l’occasione di affrontare sia le ingiustizie inflitte ai membri deboli della società contemporanea, sia le conseguenze allarmanti della crisi ecologica. Comunque il Grande e Santo Sinodo del 2016 sarà un elemento fondamentale per lo sviluppo e la presenza della Chiesa ortodossa nel mondo contemporaneo. In un certo senso, i grandi temi, determinanti per la sua convocazione e che nello stesso tempo ne definiranno le deliberazioni, sono due: il primo, i rapporti delle Chiese ortodosse con le altre Confessioni cristiane e con le altre religioni; il secondo, i rapporti tra le Chiese ortodosse stesse.

Come vede la situazione? Qual è il clima del confronto? Avverte tensioni o ostacoli da superare?

Purtroppo, c’è un elemento conservatore in crescita in molte Chiese e ambienti ortodossi, che reagisce alle sfide contemporanee della nostra epoca rinchiudendosi in un’esistenza soffocante ed escludente. Naturalmente, questa non è mai stata la prassi e la promessa della Chiesa cristiana, che «è sempre stata pronta a rispondere a chiunque ci domanda ragione della speranza che è in noi», come leggiamo nella Prima lettera di Pietro, al capitolo 3. Inoltre, per quanto riguarda le relazioni fraterne e collegiali tra le Chiese ortodosse stesse, c’è stata una crescente riduzione, nazionalista e trionfalistica, della natura eucaristica ed ecumenica della Chiesa, che ha sempre condannato il «filetismo» come un’eresia pericolosa, soprattutto in occasione del Consiglio di Costantinopoli nel 1872. Ciò nonostante, l’«etnofiletismo» sembra essere una tentazione perenne di molte delle nostre Chiese più recenti.

Qual è il suo desiderio per il vostro dialogo?

La nostra sincera speranza e preghiera è che le Chiese ortodosse autocefale possano riunirsi e discutere liberamente, in uno spirito di onestà e trasparenza, le questioni che veramente sono importanti per la Chiesa e per il mondo, piuttosto che chiudersi nella ricerca esclusiva dei propri interessi di potere e di privilegio. In caso contrario, sarebbe un’occasione persa per affrontare i problemi che davvero contano e affliggono il popolo di Dio e la creazione di Dio.

Noi cristiani abbiamo fiducia nell’opera dello Spirito Santo in favore dei nostri sforzi per vivere il Vangelo e per raggiungere l’unità della Chiesa. Papa Francesco, nella sua omelia presso la cattedrale cattolica dello Spirito Santo a Istanbul, ha detto che proprio «Lui realizza ogni cosa» e che «quando noi preghiamo, è perché lo Spirito Santo suscita la preghiera del cuore». La preghiera è essenziale, e lo Spirito «scombussola», «smuove», «fa camminare», ha detto sempre in quell’occasione il Papa. Per lei, secondo la sua esperienza di vita, che cosa significa «pregare»?

C’è un detto dei primi padri del deserto su Abba Giuseppe: «Abba Lot andò a trovare Abba Giuseppe e gli disse: “Padre, per quanto posso, seguo la mia regola di preghiera, digiuno un po’, prego e medito, vivo in pace e purifico i miei pensieri. Che altro posso fare?”. Abba Giuseppe si alzò e allungò le mani verso il cielo. Le sue dita divennero come dieci lampade di fuoco, e disse: “Se vuoi, puoi ardere per intero”». Nella tradizione ortodossa, la preghiera non è solo una tappa della vita spirituale: è un’attività pervasiva che permea tutti gli aspetti e tutti i dettagli della nostra vita. Ad esempio, ogni giorno qui al Patriarcato Ecumenico partecipiamo alle Messe di mattina (mattutino) e sera (vespri), che si concludono (con compieta) nella piccola cappella patriarcale. Tuttavia, il nostro obiettivo è quello di passare dalla fase del dire preghiere a quella di «diventare» preghiera, come Abba Arsenio nel deserto d’Egitto nel IV secolo. Con le parole di un altro teologo dell’antichità, Origene di Alessandria, diciamo: «Tutta la nostra vita dovrebbe essere una preghiera estesa e ininterrotta». Questo è esattamente lo scopo e il significato della tradizionale pratica della «preghiera di Gesù». La preghiera è lo specchio della nostra vita interiore. È ciò che rivela in definitiva chi siamo in relazione con Dio e con il resto del mondo. Attraverso il silenzio e la preghiera, non ignoriamo più quello che ci sta succedendo intorno, e non siamo più bloccati in ciò che importa solo a noi. Allora cominciamo a riconoscere che siamo tutti intimamente interconnessi e mutuamente interdipendenti. E sviluppiamo un maggiore senso di consapevolezza e attenzione per il mondo dentro di noi e intorno a noi.

La preghiera dunque non è un atto privato…

La cosa spiacevole è proprio questa: abbiamo ridotto la preghiera a un atto privato, a volte persino solamente a un’occasione egoistica per lamentarci con Dio dei nostri problemi senza aprire il nostro cuore al mondo. Nella preghiera, le nostre preoccupazioni dovrebbero essere sempre le preoccupazioni degli altri, del mondo, e in particolare delle persone più deboli che non sono in grado di proteggere se stesse. In caso contrario, la preghiera diventa un atto esclusivo e divisivo, che è poi il significato letterale della parola «diabolico». La preghiera autentica non è una confortevole sensazione di autocompiacimento, ma piuttosto un’esperienza di riconciliazione con tutta l’umanità e con tutta la creazione di Dio. Nelle Omelie di San Macario, un classico della spiritualità del IV secolo, si legge: «Chi prega veramente e in silenzio, edifica tutti ovunque». Così, come una forza universale, la preghiera ha un significato cosmico. Infatti, non possiamo mai includere alcune persone nella nostra preghiera omettendone altre. O, per dirla più semplicemente, quando diciamo che amiamo Dio ma non amiamo il prossimo, siamo dei bugiardi.

* * *

Alla fine di questa intervista con il Patriarca Bartolomeo I è proprio il desiderio della preghiera comune gli uni per gli altri e per il mondo intero che pone sfide e ci sollecita a emergere e imporsi sulle nostre parole.

Tornando a Istanbul in febbraio e chiudendo questa intervista, ho visto una città singolarmente innevata. Attraversando l’ampia area del Topkapi, il Palazzo del Sultano che ha inglobato il sito dell’antico Palazzo imperiale bizantino, si incontra la chiesa di Sant’Irene, il luogo di culto cristiano più antico della città, oggi sala da concerti. È in questa chiesa che è previsto lo svolgimento del Sinodo panortodosso del 2016. Sostando lì e meditando sulle parole del Patriarca, mi sono venute in mente le parole che Papa Francesco gli ha rivolto nella chiesa patriarcale il 30 novembre scorso: «Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione alla quale tendiamo».

 

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