Viaggiatori e viaggi nella Calabria greca
Libri e scritture di viaggio (la cosiddetta “letteratura odepòrica”, ovvero, “attinente al viaggio”), si intensificano grazie alla pratica del “GRAN TOUR”, attraverso cui, a partire dalla fine del ‘600-inizio ‘700, i rampolli europei di buona famiglia completano gli studi “puntellando” il proprio background culturale. Fin dal principio, si evince che tra le mete preferite dai viaggiatori c’è il “Belpaese”: l’Italia, tappa obbligata in seguito alla rinnovata cultura umanistica, in quanto, tra il XV e il XVI sec., la nostra penisola è “la grande officina di una rivoluzione artistica di assoluto rilievo internazionale”.
La Calabria, quella ionica in particolare, è rimasta però sempre ai margini degli itinerari di viaggio che interessano invece, seppur parzialmente, la costa tirrenica fino a Reggio, meta ultima del traghettamento verso la Sicilia. L’Aspromonte estremo poi, “ in finibus Calabriae”, -frontiera culturale, perché, roccaforte greca in terra latina, ma soprattutto “cerniera”, “anello di congiunzione” fra Oriente e Occidente- appare un’isola remota e immobile, “nel tempo ma fuori dal tempo”( T.S. Eliot), fuori dalla storia, separata non solo fisicamente ma anche culturalmente dal resto dello “stivale”; una terra rimasta “off limits” a gran parte dei viaggiatori (lo stesso Goethe “salta” la Calabria) e colpevolmente ignorata, quando non -addirittura- mistificata dalla storiografia. Oltre che terra irraggiungibile, essa non gode di una buona reputazione, in quanto, gravata dal forte pregiudizio relativo alle sue “proverbiali insidie”, rappresentate soprattutto dalla presunta pericolosità dei suoi abitanti, descritti come briganti, ladri e assassini. (A tal proposito, è curioso far notare che, il grandissimo Rohlfs,- il quale amava l’Italia e adorava la Calabria, di cui arrivò a visitare 365 località - avesse confessato che l’unico furto subìto in Italia, in più di 60 anni di continue visite, si fosse verificato a Roma e, per di più, a opera di un suo connazionale…).
Intraprendere un viaggio in Calabria,- parentesi a parte - diventa perciò una sorta di “avventura al buio” che pochi sono disposti ad affrontare, anche se, è bene precisarlo, le considerazioni iniziali vengono spesso riviste e quasi sempre ribaltate e i pregiudizi cancellati dal contatto diretto con la gente di Calabria, che ha sempre manifestato, nei confronti di qualsiasi visitatore, la sacralità del valore dell’ospitalità, che affonda le sue radici nella antica “xenìa” di matrice greca. Quindi, le (presunte) insidie “naufragano” sistematicamente e ineluttabilmente di fronte ai sentimenti e ai comportamenti xenòfili, profondamente “scolpiti” nel cuore e nella mente del popolo calabrese.
Nonostante i pregiudizi di cui sopra, dopo il Barrio (fine ‘500) e il Pacichelli (inizio ‘700), la Calabria, fra la metà del ‘700 e il ‘900, è meta prescelta di viaggiatori provenienti da varie parti d’Europa (per citarne alcuni: Dierkens, Vivant-Denon, Saint-Non, Swinburne, Witte, Strutt, Keppel-Craven, Lear, Douglas, Tuzet, Destreèe, ecc.). Le pagine di questi scrittori, che per lo più percorrono i loro itinerari a piedi (Douglas a cavallo, Tuzet in auto-siamo nel primo ‘900), sono memorie che prendono forma di giornali di viaggio, di approfondite inchieste sociali, di suggestive note antropologiche, che proiettano la Calabria in generale e l’Aspromonte estremo in particolare, in una dimensione quasi eterea, una terra insidiosa ma bellissima e seducente, che si svela -come mirabilmente sottolinea Edward Lear- con due “facies”: infernale e paradisiaca.
E’ lo stesso viaggiatore inglese che, durante il suo “tour” a piedi nella provincia di Reggio Calabria (1847), nota e annota nel suo taccuino di viaggio, le forti contraddizioni di una terra dal fascino indiscutibile, in cui tutto si compenetra: leggenda e storia, mare e montagna, mitologia misticismo, oriente e occidente, latinità e grecità. Lo scrittore e paesaggista, divenuto celebre per il suo rimare “nonsense” e a cui è “intitolato” il famoso e suggestivo “sentiero dell’inglese” nello hinterland dell’Area Grecanica, non omette di segnalare che, ovunque, sebbene si vivesse una fase difficile dal punto di vista economico-sociale-politico, le persone da lui visitate non avevano assolutamente smarrito il loro radicatissimo, “religiosissimo” senso dell’ospitalità.
La Calabria è, quindi, una terra “dall’anima greca”, se è vero come è vero che, (anche) i tanti viaggiatori stranieri ne hanno evocato e decantato -oltre che le bellezze naturalistiche e paesaggistiche- soprattutto le “bellezze dello spirito” della gente di Calabria, forgiato e plasmato -senza soluzione di continuità- attraverso millenni di storia e del quale (spirito), l’inalterabile sacralità della “filoxenìa”, di omerica memoria, ne è fedele, esemplare, straordinaria interprete.